1° Congresso FdS - Dibattito

La compagna Bevilacqua da la parola alle delegazioni dei partiti:


IdV Luca Di Teodoro: Augura buon lavoro alla neonata FdS. Il lavoro svolto negli ultimi tempi, le iniziative e le manifestazioni svolte per vertenze territoriali e nazionali sono state partecipate esclusivamente dagli schieramenti politici dell’IdV, del PdCI e del PRC. Andando nello specifico del territorio nota uno smarrimento dei giovani genzanesi sia come cittadini che come membri attivi della politica. Auspica una collaborazione con la FdS per scuotere la coscienza civica delle persone cercando di attuare dei miglioramenti su ciò che abbiamo ereditato, mettendo in campo le lotte ed impiegando più forza nelle battaglie comuni.


Sinistra Critica Nicola Casubolo: saluta e augura buon lavoro alla FdS. “Ricorda” che le lotte non si fanno solo nelle sezioni ma anche e soprattutto nelle strade. Disponibilità a collaborare nelle lotte e nelle istanze dei cittadini.


PD Giacomo Tortorici (area Bersani): saluta e augura buon lavoro alla FdS e auspica in un immediato futuro, una collaborazione attiva e rispettosa con la FdS. Comunica il congresso di circolo del PD in data 27 novembre.


Tomei (consigliere comunale del PdCI di Ariccia): occorre unire la sinistra perché così spaccata non serve a nessuno. Le lotte occorre farle nelle piazze, ma ciò non esclude il dovere di lottare all’interno delle istituzioni. Nel calendario istituzionale della FdS dovrebbe esserci l’annullamento dei patti territoriali, il nostro ritorno tra la gente, le vertenze dei lavoratori, ecc. I cittadini ci vedono non più come rappresentanti dei lavoratori e delle minoranze ma come retrogradi e semplici idealisti. Occorre aprirsi ed essere disponibili alla collaborazione con tutte le forze di sinistra per lavorare insieme e non ghettizzarsi.




























Emendamento Di Mauro Parretti (Castelgandolfo)

Occorre che si attui con la consapevolezza di essere in una situazione storica in cui il capitalismo ha da tempo smesso di avere una funzione storica positiva mediante l’accumulazione di risorse produttive e rappresenta ormai solo un ostacolo ad ogni ulteriore progresso dell’umanità.

Solo a partire dalla constatazione della irreversibilità della crisi del capitalismo e dalla comprensione della sua natura paradossale è possibile trovare il percorso verso una società che possa superarne le contraddizioni.

Come previsto da Marx, la prima grande crisi del capitalismo culminò con quella del ’29.

La natura paradossale della crisi dovette essere accettata, seppure a fatica, anche dagli economisti non marxisti, che trovarono nel keynesismo una spiegazione ed una soluzione temporanea della crisi più digeribile di quella di Marx.

Quando la produttività diventa molto elevata, il lavoro necessario ad una produzione aggiuntiva diventa molto scarso. Allora la quota di quella produzione che deve tradursi in consumi, che sono solo quelli della mano d’opera necessaria, diventa estremamente piccola.

La quota complementare, che il capitale trattiene per sé, e che è costituita da investimenti aggiuntivi, deve pertanto essere estremamente grande.

Ma, se la produzione aggiuntiva possibile implica un aumento di consumi molto piccolo, richiederà un incremento di capitale molto piccolo e quindi la quota di nuovi investimenti, che deve essere estremamente grande, trova una domanda molto piccola e dunque insufficiente. Questa assenza di un mercato di sbocco impedisce che avvenga una produzione aggiuntiva, anche se le risorse produttive esistono e sono anzi sovrabbondanti.

Dalla prima grande crisi si uscì con la brillante invenzione keynesiana dello stato sociale, che permise di continuare l’accumulazione capitalista.

Poiché ogni produzione aggiuntiva che si realizzi, genera anche una tassazione aggiuntiva, lo Stato, aggiungendo una quota di consumi pubblici a quella, di per sé troppo scarsa, dei consumi del lavoro, poteva rendere congrua la quota di nuovi investimenti, altrimenti troppo grande, e dunque possibile la realizzazione di produzioni aggiuntive, via via crescenti.

La tassazione aggiuntiva conseguente, faceva rientrare lo Stato della spesa, inizialmente sostenuta, senza generare inflazione.

Questa soluzione permise la continuazione di uno sviluppo capitalistico addirittura enorme ed accompagnato da un elevato progresso sociale.

Come però aveva previsto Keynes, questa soluzione sarebbe stata temporanea perchè, quando la società fosse arrivata a soddisfare la gran parte dei bisogni primari, anche i lavoratori avrebbero iniziato a risparmiare una piccola quantità del loro reddito, riproponendo un drastico limite ai consumi rispetto alla produzione possibile.

Lo stato sociale portò, seppure contraddittoriamente, in quanto funzionale alla prosecuzione dell’accumulazione capitalista e subalterno alla legge del profitto, a quella condizione, altamente produttiva, che Marx aveva previsto che avvenisse in una società già socialista, adeguata all’introduzione progressiva del comunismo, cioè al superamento della pura e semplice egoistica appropriazione di risorse nell’esercizio del lavoro umano.

Pur nel limitato orizzonte capitalista, anche Keynes espresse la necessità di superarne in qualche forma i meccanismi, quando si fosse giunti alla condizione in cui il capitale avrebbe smesso di essere scarso e previde che sarebbe avvenuta l’eutanasia del risparmiatore.

Occorre allora comprendere che una economia finanziaria, in apparenza svincolata dalla economia reale, è dovuto dal perdurare della legge del profitto oltre ogni limite e rappresenta il modo in cui, mediante l’inflazione progressiva e le periodiche cadute delle borse, si svalutano numerosi piccoli risparmi, affinchè pochi grandi capitali possano avere un profitto positivo in un “gioco a somma zero”.

Dal lato dell’economia reale, poiché lo stock di capitale reale necessario non cresce, si tende a rendere necessario ciò che non lo è, creando capitalizzazioni ben oltre le stesse regole capitaliste, arrivando a privatizzare risorse non operabili in un regime di concorrenza, come autostrade, ferrovie, sistemi di telecomunicazione, acquedotti, e così via ed inventando capitalizzazioni immateriali innecessarie, come quote di mercato, brevetti su formule scientifiche, relazioni pubbliche e lobby, diritti di edificabilità dei suoli, permessi, concessioni e così via.

Ma, se vogliamo che l’alternativa possa scalzare il capitalismo, deve proporre i cambiamenti necessari affinchè un nuovo modo di produrre e riprodursi possa essere praticabile, superando quelle contraddizioni.

La crisi del capitalismo si manifesta nella difficoltà a riprodurre tanto il capitale, quanto il lavoro salariato, entrambi eccedenti sul mercato.

Per questo è necessario che i lavoratori possano produrre senza la mediazione e lo sfruttamento del capitale.

In questo momento storico però per ottenere questo non è più sufficiente l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori, ma è necessario che il lavoro salariato riesca definitivamente a superare la sua condizione di merce, per di più sovrabbondante.

Occorre la consapevolezza che, in una situazione di estrema produttività come quella attuale ed in presenza di una globalizzazione dell’economia, non è più sufficiente la contrattazione collettiva a livello nazionale, ma è necessario passare ad una armonizzazione del costo del lavoro a livello europeo e poi mondiale, in modo che, così come ci si preoccupa che avvenga per le altre merci, anche per la merce forza lavoro non ci sia concorrenza sleale.

Questo principio di controllo dell’offerta e contrattazione collettiva deve estendersi progressivamente alle regole del commercio internazionale, affinchè non si delocalizzino selvaggiamente le produzioni alla ricerca del lavoro a costo più basso e si capisca che a salari più bassi corrisponde una più bassa capacità di consumo ed una spirale recessiva inarrestabile.

Solo la contrattazione internazionale del salario può impedire il continuo impoverimento dei lavoratori e, successivamente, consentire che, accanto ad un maggior soddisfacimento dei bisogni principali, che non sfoci nel consumismo e nel degrado ambientale, si realizzi una progressiva riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Ma porre la centralità del lavoro senza porre simultaneamente il superamento del lavoro salariato stesso sarebbe velleitario.

A chi reclamare il diritto al lavoro, se il capitale non è più in grado di mediare lo sviluppo sociale?

Su questo si misura il socialismo del XXI secolo, che deve saper trarre dagli errori, spesso drammatici, sia del socialismo bolscevico, che della socialdemocrazia del welfare, gli elementi per riproporre un socialismo scientifico e non moralista ed utopistico.

Dobbiamo comprendere la storia del ‘900 e gli errori delle prime forme di socialismo realizzate.

Tutte le “rivoluzioni socialiste” del ‘900, a partire dalla rivoluzione d’ottobre, si sono realizzate in società ben lontane da quella maturità capitalista che, secondo Marx, doveva rendere possibile e necessaria l’introduzione del socialismo, scientifico proprio in quanto frutto della realtà storica.

Invece è successo che guerre di liberazione nazionali, abbattimenti di dittature precapitaliste e rivoluzioni antifeudali hanno visto la partecipazione egemonica di forze socialiste, che hanno preso il potere e realizzato un socialismo che è stato frutto di un progetto intellettuale, prematuro in situazioni ancora caratterizzate dalla scarsità di risorse, basato su un egalitarismo morale e dunque troppo simile ad un capitalismo di stato, con un meccanismo distributivo calato dal’alto.

Come non ricordare che l’accumulazione di capitale, necessaria all’industrializzazione accellerata dell’Unione Sovietica, fu sì ottenuta senza la sferza del capitale, ma drammaticamente sostituita da quella staliniana.

L’assenza delle condizioni economiche adeguate, quelle cioè di un capitalismo maturo ed in crisi da sovrapproduzione, ha reso necessario che lo Stato, per di più ereditato dalla società preesistente, finisse per sostituire la socialità delle relazioni produttive nella costruzione del socialismo, confondendo la socializzazione con la ingenua statalizzazione.

D’altro canto la “soluzione” dello stato del welfare, anch’essa tecnico progettuale, tanto da essere indicata nella vulgata come la “ricetta” keynesiana, si è pure basata sull’attività dello Stato come appoggio e parziale sostituto del capitale, ma subalterna ed asservita al meccanismo capitalista.

Con Darwin, Marx e Freud, l’umanità si è trovata dinanzi all’imbarazzante conoscenza della propria natura, quella di una specie, dotata di un intelletto, ma la cui azione è fondamentalmente guidata dalle pulsioni e la socialità si realizza mediante le autocostrizioni del Super-Io.

Lo sviluppo della civiltà ed il lento, faticoso, superamento dell’ è sempre andato di pari passo con l’aumento della produttività del lavoro umano e dunque con la soddisfazione crescente dei bisogni primari.

Tutto il ‘900 sembra invece svolgersi all’insegna di una gigantesca rimozione collettiva di quelle scomode ed avvilenti conoscenze della natura umana ed alla ricerca di una autoesaltazione eroica, cosicché i primi tentativi di superamento del capitalismo si sono entrambi ingenuamente basati sulla costruzione di un socialismo etico ed intellettualmente concepito, anziché sul materialismo storico, o comunque su un’analisi antropologica scientifica, che facesse i conti con quello che l’umanità è e non con quello che vorrebbe essere, così come con quello che è possibile e storicamente necessario e non con quello che è moralmente ed utopisticamente desiderabile.

Aldilà del grado di “ritorno a Marx”, è comunque necessario uscire dalla superficiale dicotomia Stato-Mercato, riuscendo ad individuare il modo concreto di realizzare “la produzione senza il capitale” come produzione direttamente sociale.

Per quanto concerne il mercato, occorre approfondirne il duplice aspetto, che Marx evidenziava:

  1. La funzione, tendenzialmente positiva, del mercato come sanzione sociale della necessarietà ed utilità sociale dell’attività svolta (insomma come luogo ideale dove chi produce male, in modo obsoleto, o pigro, o cose che agli altri non interessano, deve fare i conti con lo “stato dell’arte”, con “l’innovazione” e con “l’utilità altrui”).

  2. La funzione di sanzione sociale di scarsità, o sovrabbondanza, che serve all’equilibrio produttivo, ma che è tendenzialmente negativa in una situazione di strutturale sovrabbondanza di una merce, quando questa rappresenta l’unica fonte di reddito di un gruppo sociale.
    In tal caso il mercato genera una situazione di guerra di prezzi al ribasso tra i detentori di tale merce che è dannosa per tutti.

Quando alla fine degli anni ’70, la sinistra storica ed i sindacati commisero l’errore di ritenere che, diminuendo il salario, sarebbe cresciuta la domanda complessiva di lavoro, anziché portare la contrattazione collettiva nazionale del salario a livello europeo e sottrarlo alla concorrenza internazionale, iniziarono ad accettare la visione liberista del lavoro, fino a riportarlo alle condizioni di precarietà, bassi salari e concorrenza di paesi a maggior grado di sfruttamento.

Di fronte alla elevatissima produttività che la tecnologia ha prodotto, l’umanità deve comprendere che, per la prima volta nella storia, il lavoro necessario alla riproduzione sociale è molto poco. Ma se il senso comune continua a ragionare con la logica del profitto e dell’accumulazione, la soddisfazione di bisogni via via crescenti, pur se possibile, non avviene perché deve ancora passare attraverso la mediazione del capitale, deve dare luogo ad una produzione di merci che debbono servire al profitto, cioè ad accumulare il capitale, che però non ha un valore d’uso e quindi quella soddisfazione dei bisogni, pure possibile, non avviene perché è il capitale e la possibilità del profitto che dettano le regole.

Dobbiamo allora superare la paradossale contraddizione del capitalismo che è davanti a noi da più di quarant’anni: dal lato di chi vive del proprio lavoro ci sono bisogni che non si traducono in domanda di consumi per l’assenza di reddito, mentre dal lato dei risparmiatori c’è un reddito che evapora costantemente nei meccanismi finanziari perché non può tradursi in domanda di investimenti che non avrebbero un’utilità.

Eppure si costringono i lavoratori ad accettare salari basati su una produttività che è misurata in denaro prodotto per unità di lavoro, come se un impianto efficientissimo, che funzionasse solo al 20% della sua capacità per mancanza di domanda, fosse per questo non produttivo.

Ma proprio dai primi ingenui tentativi di superamento del capitalismo, quello bolscevico, costruito in condizioni di bassissima produttività e che ha dovuto quindi produrre un’accumulazione di capitale senza capitalismo, come quello socialdemocratico, costruito in condizioni di elevata produttività, ma per proseguire e rendere ancora temporaneamente possibile l’accumulazione capitalista, dobbiamo trarre la riflessione sul ruolo dello Stato, che ha dovuto rappresentare in entrambi i casi l’attore di un cambiamento che, proprio in quanto progetto esterno, doveva essere introdotto per legge.

Ma se nella società non esistono ancora nuove relazioni produttive e riproduttive, che implichino nuove relazioni sociali, lo Stato, sovrastruttura giuridica e diretta emanazione della politica, non può essere l’attore del cambiamento, ma saranno i mutamenti delle relazioni riproduttive e sociali che dovranno cambiare lo Stato.

Sarà dunque necessario che si sviluppi l’associazione di liberi produttori, in forma cooperativa e no profit, senza la mediazione del capitale (cioè dove il valore aggiunto è trasformato in reddito personale e non in rendita o interesse), né dello Stato, elementi esogeni ed arbitrari, affinché riprenda e si espanda la soddisfazione dei bisogni umani aldilà del capitalismo.

Altrimenti lo Stato continuerà a rispecchiare il vecchio capitalismo e la maggioranza continuerà ad essere la somma di interessi particolari e quindi corporativi, e, proprio in quanto attore economico, sarà facilmente oggetto di lobbismo e corruzione.

Come non riconoscere infatti che una gran parte dell’imprenditorialità si basa oggi su adeguate “relazioni pubbliche”? presso le banche per ottenere un normale credito, presso gli appaltatori pubblici per avere commesse sufficienti, presso i legislatori per ottenere permessi, licenze, autorizzazioni e conformità, quando non addirittura leggi ad personam (come assegnazione di frequenze televisive, o possibilità di operare in condizione di monopolista).

Ma il socialismo del XXI secolo deve anche tener conto di un modo di riprodursi completamente nuovo, che già comincia ad implicare relazioni sociali completamente nuove e determina l’emergere oggettivo dell’egemonia sociale della donna.

Se la selezione naturale ha reso la femmina dell’umano, così come della quasi totalità delle specie animali, più debole, incapace a procacciarsi la sussistenza e legata alla procreazione nell’esercizio, spesso forzato, della sessualità, il capitalismo ha introdotto due mutamenti nel processo storico:

  1. Con l’introduzione dell’energia artificiale ha reso la forza lavoro femminile altrettanto produttiva di quella maschile e la donna è divenuta capace di provvedere alla propria sussistenza e perfino a quella della prole.

  2. Con l’introduzione degli anticoncezionali ha separato dalla procreazione l’esercizio della sessualità, rendendolo libero, sia per l'uomo che per la donna, ed ha posto la donna nella condizione oggettiva di poter:
    a)- stabilire a proprio piacimento l’esercizio della propria sessualità.
    b)- procreare anche senza l’esercizio della sessualità e l’intervento diretto dell’uomo.
    c)- provvedere a se stessa ed alla propria prole.
    d)- stabilire se, chi, e come abbia funzione paterna nei confronti della prole.

La sessualità è repentinamente divenuta pertanto una questione relegata a fatto privato, irrilevante per il resto del corpo sociale, così che coloro che per “natura”, o per scelta esistenziale, o per eventi della propria infanzia, manifestino una sessualità, finora considerata atipica in quanto non adeguata alla procreazione, non rappresentano più socialmente, al pari degli altri, alcunché di rilevante.

La donna, sia essa eterosessuale, o lesbica, è comunque in condizione di poter procreare.

La precedente egemonia sociale maschile, legata alla sua sua forza fisica ed alla conseguente capacità a procacciare la sussistenza propria, della “sua” donna e della “sua” prole, che si esprimeva, nelle varie forme e situazioni sociali, mediante il “domino”, si trova ora a dover metabolizzare la propria, attuale “marginalità sociale”.

Le nuove condizioni della riproduzione hanno confinato la sessualità alla sfera del privato e
1- reclamano la parità di diritti sociali per tutti, indipendentemente dalla propria sessualità

2- hanno reso la donna egemone nella funzione riproduttiva e nella tutela della prole.

Questa nuova “egemonia sociale” emergente della donna, talvolta si scontra con il sistema di relazioni sociali precedente, basato sull’egemonia maschile e contraddistinto dall’uso della violenza nelle relazioni sociali e verso l’oggetto del proprio desiderio.

Ma questa violenza nelle relazioni sociali, ben lontana dall’essere “levatrice della storia”, è considerata ormai dal senso comune come un elemento di pericolosità sociale.

Occorre che i valori, che la centralità e l’egemonia sociale femminile possono recare, come il superamento della violenza e dell’accaparramento nelle relazioni sociali, diventino anche egemonia culturale e possano condurre, in questa situazione di potenziale sovrabbondanza, a saper lavorare come libera realizzazione umana, che porti ciascuno a dare secondo le proprie capacità affinchè sia possibile che ciascuno possa ricevere secondo i propri bisogni.

Tra le pieghe della società in crisi, comincia infatti ad emergere la consapevolezza che non è possibile migliorare la qualità della propria vita, se non migliora anche quella dei propri vicini. Questo si manifesta in un maggiore sensibilità verso l’ambiente e l’uso delle risorse naturali comuni e non rinnovabili e verso la condivisione della tecnologia e della produttività con nazioni e popoli ad un minor livello di sviluppo, affinché l’integrazione multiculturale renda la Terra vivibile in pace.

La permanenza però di un meccanismo produttivo capitalista e le incertezze che la sua crisi provoca oscurano con emergenti paure i nuovi valori sociali di solidarietà e tolleranza.

Sono le paure di un futuro incerto, che la crisi del capitalismo provoca:

- della disoccupazione di massa e della precarietà tra i giovani,

- della insicurezza del potere d’acquisto della pensione nel tempo tra i vecchi,

- della perdita del posto di lavoro e dell’aumento dell’età pensionabile tra gli occupati anziani.

Ma un altro tipo di paura si impone. Se il capitalismo in crisi colpisce i paesi più sviluppati, esso ha già duramente colpito i paesi del terzo mondo, dove ha provocato condizioni di nuove povertà che si aggiungono alle vecchie.

Da tanti paesi partono drammatiche migrazioni di grandi masse, in cerca di condizioni di vita migliori verso il primo mondo, già esso stesso in crisi.

Per i migranti non vi sono grandi risorse, ma condizioni di vita drammatiche, talvolta in condizioni di clandestinità e di sfruttamento intensivo.

Spesso provengono da paesi in cui non si è ancora sviluppato il capitalismo, in cui i valori della società borghese non hanno ancora attecchito e le relazioni sociali sono quelle di società arcaiche, feudali, o tribali.

Per essi la società capitalista in crisi non riesce a rappresentare un ideale di civiltà più produttiva, con relazioni sociali più avanzate da acquisire. Perciò spesso la normale tendenza a ritrovarsi e riformare le comunità etniche originali diventa un modo per mantenere la propria identità in una situazione di crisi e pericolo e rifiutare un modello culturale e civile, non promettente, né esaltante.

La reazione dei cittadini dei paesi ospitanti, aldilà della usuale diffidenza verso il “diverso”, spesso sconta anche la distanza enorme che separa una società dove vigono rapporti sociali precapitalistici, di assoluto dominio maschile, sottomissione della donna e violenza nei rapporti sociali e familiari, da quella dove si va affermando la tendenziale egemonia femminile e la violenza privata è ormai percepita come un elemento di pericolosità sociale.

La crisi della civiltà ospitante non le permette di presentarsi come modello di riferimento, capace di integrare quelle ospitate, accogliendone gli aspetti culturali, ma costringendole a fare i conti con la modernità delle proprie relazioni sociali. La sua debolezza, in assenza di un’alternativa reale, fa emergere nel confronto etnico solo paure e diffidenze e favorisce da entrambi i lati le chiusure, la xenofobia, il razzismo, l’esaltazione acritica della propria morale o della propria religione!

Questo rende difficile, ma urgente, che l’affermazione dei diritti civili, la difesa della legalità, la sconfitta della violenza nelle relazioni sociali, l’eliminazione del lavoro nero e precario, il superamento della concorrenza tra lavoratori, il diritto all’istruzione ed alla conoscenza, garantito da scuola e università pubbliche e gratuite, le politiche per la piena occupazione e per orientare l’economia a fini sociali e redistribuire le risorse a vantaggio del lavoro, siano legati alla tutela dei migranti ed all’impegno contro razzismo, xenofobia ed ogni forma di neofascismo.

La politica fiscale deve, insieme alla redistribuzione di risorse verso i meno abbienti, favorire la spesa del reddito e penalizzare il risparmio in forma monetaria.

Può dunque prevedere la detassazione dei redditi spesi per acquistare lavoro in forma diretta, o da imprese cooperative e no profit e dunque favorire la circolazione del reddito.

Può viceversa penalizzare con aliquote alte il reddito non speso, ma prevedere la detassabilità per contributi previdenziali anche in forme volontarie o diverse da quelle usuali dei lavoratori salariati, permettendo e favorendo quelle forme di risparmio volontario e variabile che esprimono l'esigenza di assicurare a se stessi ed ai propri congiunti un futuro certo e sicuro.





emendamento di Francesco Ammendolia, Mauro Anzuini, Giorgio Barbieri, Carlo Cortuso, Alessandro D’Angelillo, Piero D’Angelillo, Melissa De Carolis, Stefano Paterna (Genzano di Roma)


DAL BASSO,

DAI MOVIMENTI,

COSTRUIRE LA SINISTRA DI ALTERNATIVA

COSTRUIRE LA FEDERAZIONE

Il Congresso territoriale della Federazione della Sinistra dei Castelli Romani riconosce le pratiche di mutualismo e le relazioni paritarie con i movimenti e le vertenze sociali presenti nella nostra zona come due elementi fondanti della propria identità di Sinistra di Alternativa.

La creazione di Gruppi di Acquisto Popolare, di corsi di sostegno gratuiti per studenti in difficoltà e di lingua italiana per migranti, l’apertura di palestre popolari e di ambulatori sociali, cosi come tante altre modalità di intervento che non è possibile menzionare in questa sede, costituiscono le fondamenta di un nuovo modo di fare politica nell’epoca della crisi del capitalismo.

Queste pratiche consentono infatti di rispondere a bisogni immediati dei cittadini e, in particolari delle classi popolari. Su di esse, pertanto, è possibile ricostruire, per dirla con Gramsci, una “connessione sentimentale” con il nostro popolo che anni di politicismo e di mancati risultati concreti hanno allontanato dalla politica e dalla Sinistra. Queste tipologie nuove di militanza non sono affatto una negazione della politica come elaborazione culturale e formazione di quadri, ma ne costituiscono invece una parte essenziale.

E’ sufficiente citare la splendida esperienza delle Brigate di Solidarietà Attiva (alle quali partecipano tante compagne e compagni dei nostri circoli) in Abruzzo e in questi giorni in Veneto, per rendersi conto del valore politico di queste esperienze. Esperienze che ora hanno trovato una comune forma organizzativa nella RAP, la Rete per l’Autorganizzazione Popolare che raggruppa associazioni, gruppi di acquisto, mutue autogestite, e che avrà la sua assemblea costitutiva a fine anno.

L’altro elemento che la Fds del territorio individua come centrale nella sua azione politica è la costruzione di relazioni paritarie con i movimenti di base ambientalisti e sociali presenti nei Castelli Romani: relazioni ovviamente improntate al pieno rispetto della reciproca autonomia, ma che tuttavia riconoscono nella capacità vertenziale di questi soggetti sociali un patrimonio fondamentale della Sinistra di Alternativa e perfino una istanza fondamentale di radicalità e di distinzione rispetto alle politiche insoddisfacenti e moderate che il Pd e spesso il quadro politico del Centro-Sinistra locale esprime.

In particolare, il Congresso territoriale della Federazione della Sinistra si impegna a sostenere pienamente la lotta del Coordinamento contro l’Inceneritore di Albano e le forme di lotta improntate all’autorganizzazione che da anni si stanno sviluppando contro questo “ecomostro”. Cosi come riconosce il valore della mobilitazione dei locali comitati per l’acqua pubblica che hanno saputo raccogliere centinaia di firme a favore del referendum.

E’ evidente infatti che se la Federazione della Sinistra ha un futuro, questo non può che essere costruito a partire dal basso; dai conflitti e dai bisogni che esprimono le classi popolari dei nostri territori.